E’ notizia delle ultime ore che Israele e Hamas hanno firmato la prima fase del piano di pace per porre fine al conflitto nella Striscia di Gaza. L’annuncio è arrivato nella tarda serata di mercoledì da parte del Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, tramite la piattaforma Truth Social, dove lui ha definito l’intesa “il passo iniziale verso una tregua stabile”.
La notizia è stata confermata poche ore dopo sia da un comunicato dell’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, sia da una nota diffusa da Hamas, che ha espresso “riconoscenza al Qatar, agli Stati Uniti e all’Egitto per la mediazione determinante”.
C’è, però, qualcosa di quasi irreale nel leggere che Israele e Hamas abbiano firmato la prima fase di un piano di pace. Quante volte abbiamo sentito parole simili, e quante volte si sono sciolte nel fumo delle bombe? Eppure, ogni volta che accade, una parte di noi sceglie — ostinatamente — di crederci.

Trump annuncia l’intesa, con il tono trionfante di chi vuole essere ricordato per qualcosa di grande, (ci sarà l’assegnazione del premio Nobel per la Pace questo venerdì, ndr), Netanyahu e Hamas confermano. Ma dietro le parole, come sempre, i soliti dettagli opachi: ritiri parziali, scambi di prigionieri, aiuti umanitari, tregue condizionate.
Hamas parla di fine dell’occupazione. Netanyahu parla solo di ostaggi. Due verità che si sfiorano senza toccarsi. Da un lato, l’accordo — se davvero sarà implementato — potrebbe finalmente fermare, anche solo temporaneamente, un ciclo di distruzione e vendetta che ha trasformato Gaza in una ferita aperta del nostro tempo.
Dall’altro lato, non si può ignorare il peso delle ambiguità. Netanyahu parla di sicurezza e di ostaggi, ma evita accuratamente di menzionare un ritiro completo. Hamas, invece, proclama la “fine dell’occupazione” e la “liberazione di Gaza”. Due narrazioni inconciliabili, che difficilmente potranno coesistere a lungo. Il linguaggio della diplomazia serve spesso a guadagnare tempo, non a dire la verità.
Trump non è un uomo di pace, e forse non gli interessa nemmeno esserlo. Ma la storia è piena di pace nate dall’ambizione. E se questo accordo resisterà anche solo qualche settimana, avrà già fatto più di molte parole giuste pronunciate da chi non rischia nulla.
Penso ai prigionieri palestinesi, agli ostaggi israeliani, alle famiglie che da mesi vivono sospese, senza sapere se rivedranno un volto amato. Dietro ogni firma, ogni scambio, ci sono corpi e vite. Non cifre, non slogan: persone. È questo che spesso dimentichiamo, noi che osserviamo da lontano, protetti dallo schermo e fortunati di essere nati dalla parte “giusta” del mondo.
Forse questo accordo non durerà. Forse è solo un intervallo, una tregua scritta sulla sabbia. Ma anche gli intervalli, a volte, salvano vite. E se la parola “pace” riesce ancora, per un momento, a non suonare ridicola, allora vale la pena pronunciarla.